La creazione e lo sviluppo dei rapporti umani tra i diversi attori della relazione di accompagnamento verso l’integrazione è stata la cosa più difficile ed affascinante da valutare nel nostro progetto, così come è l’oggetto più complesso e interessante affrontato dalla letteratura che studia i fenomeni migratori e le dinamiche di accoglienza e integrazione dei migranti nei paesi di arrivo.
Infatti, se la relazione di aiuto ha in sé alcuni elementi valutabili per comprenderne l’efficacia e la rispondenza alle aspettative reciproche degli attori coinvolti, la nascita e lo sviluppo di relazioni umane di stima, affetto, fiducia, amicizia portano con sé la difficoltà di studiare l’unicità insita in ogni persona, che sia rifugiata o parte della comunità accogliente.
Nel corso degli anni del progetto di valutazione abbiamo visto nascere e svilupparsi rapporti umani che sono andati oltre la dimensione dell’aiuto perché su di essa rifugiati, operatori e volontari hanno costruito una fiducia reciproca, divenuta poi amicizia. Quindi, da una relazione di aiuto, sbilanciata ma più facilmente definibile in termini di ruoli e responsabilità, si è sviluppata un’amicizia, cioè un rapporto di per sé maggiormente paritario e più imprevedibile. Lo strumento è stata la fiducia, costruita fin dall’inizio e coltivata nel tempo, che ha permesso a operatori, rifugiati e volontari di spiegare le proprie necessità e i propri desideri, comprendere i propri limiti, cercare altre forme di aiuto e sostegno se necessarie, chiedere scusa e superare i fraintendimenti, accettare consigli, comprendere nuove culture e stili di vita, rispettare la libertà altrui.
Pur nella varietà delle singole personalità, abbiamo riscontrato che alcuni elementi hanno facilitato la nascita e lo sviluppo di questi rapporti personali:
la preparazione all’accoglienza fatta dai volontari sotto la direzione dell’equipe degli operatori Caritas diocesani
il mantenimento di momenti e spazi di dialogo e confronto tra operatori e volontari per tutta la durata del progetto e, comunque, finché i rifugiati sono rimasti parzialmente o in toto a carico della Caritas e della comunità accogliente
l’inserimento nell’equipe degli operatori diocesani di almeno uno psicologo che ha potuto fornire un supporto costante agli operatori direttamente a contatto quotidiano con i rifugiati e le comunità accoglienti
la presenza costante di un mediatore culturale che, a differenza del mediatore linguistico, non sia limitato a tradurre tra due lingue diverse ma che abbia saputo fin dall’inizio spiegare a tutte le parti coinvolte anche le reciproche differenze culturali e come adattarle nella realtà italiana
la creazione di occasioni di confronto tra l’equipe della Caritas diocesana e Caritas italiana, soprattutto quando si sono presentati problemi tecnici, come quelli relativi alle lentezze burocratiche o a malattie.
Non tutte queste relazioni di amicizia sono durate nel corso degli anni: abbiamo potuto seguire alcuni casi in cui i rifugiati sono partiti comunque in modo non concordato con gli operatori e i volontari, lasciando in questi ultimi un dispiacere che in alcuni casi è diventato amarezza e chiusura a nuove accoglienze e in altri casi, invece, opportunamente guidato da psicologi competente, ha saputo accettare la libertà dei rifugiati e il rischio di accogliere ancora ulteriori rifugiati.
E’ significativo che in un caso in cui la famiglia tutor e la famiglia rifugiata aveva sviluppato un rapporto di amicizia interrotto dalla partenza improvvisa della madre con i due figli minori, quest’ultima abbia contattato di nuovo la famiglia tutor, chiedendole di poter tornare in Italia nella città in cui era stata accolta come beneficiaria dei corridoi umanitari. Infatti, dopo aver seguito alcuni connazionali all’estero, la signora aveva sperimentato un livello più basso di “attenzioni umane a se stessa e ai figli”.