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TRA PARI

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In un progetto come quello dei corridoi umanitari, in cui è espressamente previsto il coinvolgimento delle comunità accoglienti dal punto di vista umano, si può pensare che l’accoglienza venga vista come l’offerta di una lista di cose concrete: casa, cibo, vestiti, soldi. In realtà, le interviste condotte con le comunità accoglienti e i beneficiari hanno messo in luce per gli uni e per gli altri come ciò che molti cercano e desiderano è partecipare alla vita dell’altra persona, essere parte di un rapporto umano che, partendo dal soddisfacimento dei bisogni primari e concreti, permetta di costruire un rapporto di più ampio respiro, mettendo in gioco tutta la propria personalità.
Un beneficiario ci ha descritto la portata umana che per lui aveva avuto il “banale” gesto di essere accompagnato dall’operatrice a ritirare il permesso di soggiorno: “Quando sono stato qualche giorno fa in una città qui vicino a prendere il permesso di soggiorno e mi hanno consegnato un permesso di soggiorno dove c’era la mia foto, il mio nome e questa cosa mi è sembrata strana in un primo momento. Perché nel mio paese la mia identità era stata negata, non ho mai avuto una tessera. Per questo dico ‘mi rendo conto di essere una persona vera’, perché mi hanno dato un documento che mi era sempre stato negato e che tante volte mi ha fatto dubitare dell’importanza e della necessità della mia esistenza”.
Un operatore ha descritto questa volontà di accompagnare umanamente i rifugiati che vedeva realizzarsi nella comunità accogliente: “Il cerchio di persone coinvolte intorno ai 3 [rifugiati] si sta allargando con facce nuove: dalle donne che vanno a cucinare a casa loro per sperimentare insieme piatti e ricette con i prodotti del territorio, all'inserimento in una squadretta di calcio di W. [rifugiato]. T. [rifugiato] partecipa a un laboratorio di pittura, alcune persone/famiglie li hanno invitati a mangiare insieme a casa propria, sono andati, con un improbabile gruppo di persone, al cinema. Anche se non ci hanno capito una mazza è stato divertente”.
Il monitoraggio ha fatto emergere le storie di alcuni volontari e famiglie tutor, che si sono coinvolti nei corridoi umanitari dopo precedenti esperienze di accoglienza di migranti. Due operatori hanno spiegato: “a noi è stato dato questo incarico dei corridoi umanitari perché noi avevamo già l’esperienza del progetto del “rifugiato a casa mia”, sia della prima esperienza che della seconda esperienza. La Caritas nostra ci aveva preso per questo motivo, perché avevamo questa esperienza personale di accoglienza, sempre un ragazzo dai barconi, a cui avevamo aperto casa e che quindi già dal 2009 al 2015 abitava con noi. È diventato ingegnere, […] lo avevamo fatto studiare”.
A loro ha fatto eco una famiglia tutor:“fa parte del nostro essere famiglia. L’accoglienza c’è sempre stata in casa nostra a cominciare dai parenti, chiaramente. Quella che una volta si chiamava famiglia aperta. Noi avevamo sempre le porte aperte per parenti e amici”.
Tale capacità e volontà di accompagnare le persone accolte in una dimensione di rapporti umani non ha visto in tutte le diocesi la stessa attivazione delle comunità: “La cosa più buffa è che io pensavo che all’interno degli operatori della parrocchia non ci sarebbero mai stati problemi e che l’accoglienza sarebbe comunque poi stata così. Magari ci sarà qualche problema da qualcuno non credente o da parte di qualcuno che non partecipa, ma mi sono accorto che la cosa è trasversale. Anche all’interno di chi frequenta la parrocchia le persone più rigide lo hanno detto e dimostrato anche col disinteresse diretto. Quindi il discorso dell’accoglienza del diverso è molto personale e prescinde la religione, poi noi, da cattolici, pretendiamo o pretenderemmo che l’accoglienza dovrebbe essere una delle prime cose, a prescindere, ma in realtà risulta non essere così”.
La scelta di accogliere i beneficiari dei corridoi

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