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HL04
CAMPO PROFUGHI
PERCHE’ MANCA IL CAMPO?

PERCHE’ MANCA IL CAMPO?

Secondo l’UNHCR 6 milioni di persone nel mondo vivono attualmente in campi profughi, cifra che corrisponde al 22% del totale dei rifugiati. Secondo questi stessi dati, nel 2021 l’Etiopia ospitava 830,305 rifugiati e richiedenti asilo, classificandosi al terzo posto dei paesi in Africa per numero di rifugiati accolti. La stragrande maggioranza dei rifugiati in Etiopia proviene dal Sud Sudan (388.737), dalla Somalia (225.877), dall'Eritrea (158.548) e dal Sudan (46.616).
I campi profughi sono strutture temporanee costruite per fornire protezione (anche se all’interno dei campi esistono episodi di violenze di vario tipo) e assistenza immediata alle persone costrette a fuggire dai loro paesi (servizi di base quali cibo, acqua, riparo e cure mediche).
È una vita nel limbo che può durare anche anni.
La durata media del tempo che i rifugiati trascorrono nei campi varia a seconda della crisi del paese da cui provengono: possono trascorrere persino decenni ed è comune che intere generazioni crescano nei campi.
Quando questo accade i campi dovrebbero offrire opportunità educative, di sostentamento e materiali per costruire alloggi più permanenti. In questa ottica nel 2019 l'Etiopia ha approvato una legge che concede a quasi 1 milione di rifugiati il diritto di lavorare e vivere fuori dai campi più dignitosamente, riducendo la dipendenza dagli aiuti esteri.
I campi profughi dell’UNHCR sono costruiti secondo tre criteri: sicurezza (vicini al confine, un giorno di distanza a piedi), geografia del terreno (suolo abitativo stabile, facile accesso ad acqua e smaltimento di rifiuti) e accessibilità (logistica e di approvvigionamento).
Un campo ben progettato dovrebbe aiutare a prevenire incendi e focolai di malattie.
Il cibo, i punti di accesso all'acqua e i bagni dovrebbero essere adeguatamente illuminati e vicino a rifugi in modo da proteggere i rifugiati, specialmente i più vulnerabili, da ogni tipo di violenza.
Sul piano alimentare, sebbene l’UNHCR raccomandi di garantire ad ogni rifugiato più di 2.100 calorie al giorno, spesso i campi non raggiungono questo standard.
Nel 2018, nei campi etiopi di Gambella, Melkadida, Assosa e Jijiga, i rifugiati ricevevano 1.737 calorie, mentre quelli del Tigray e Afar 1.920. A giugno 2021, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO), il Programma alimentare mondiale (WFP) e l'UNICEF hanno lanciato un grido di allarme chiedendo interventi urgenti per far fronte alla drammatica situazione di insicurezza alimentare nell'Etiopia settentrionale, con rischio di carestia nella regione del Tigray, dove il conflitto in corso ha ostacolato la fornitura di aiuti umanitari.
Su tale conflitto hanno ulteriormente impattato la pandemia da COVID-19 e le misure necessarie per contenerla. Infatti, sebbene non siano stati segnalati focolai gravi di COVID-19, i rifugiati corrono un rischio maggiore a causa del sovraffollamento; inoltre ciò ha ridotto la disponibilità di cibo nei mercati dei campi.
La pandemia ha soprattutto avuto conseguenze devastanti sul reinsediamento dei rifugiati.
Nel 2020, molti paesi hanno sospeso i programmi di reinsediamento. Degli 1,44 milioni di rifugiati bisognosi di reinsediamento nel 2020, meno del 2% è stato reinsediato, il numero più basso registrato in quasi due decenni e una riduzione dell'80% rispetto all'anno precedente.
Vivere per anni, se non addirittura decenni, in tali condizioni di estrema precarietà e allo stesso tempo di costante dipendenza da ONG e organizzazioni internazionali che procurano il cibo e le cure essenziali, ha creato profondi problemi di adattamento dei rifugiati alla realtà italiana.
Qui, infatti, le condizioni di vita sono incomparabilmente migliori in termini di sicurezza personale e soddisfacimento dei bisogni primari, ma allo stesso tempo l’organizzazione della società non permette di vivere per anni o decenni alla totale dipendenza di attori esterni che procurano cibo e risorse economiche.
Il rischio di richieste volte più all’assistenzialismo che all’assistenza è, perciò, legato strettamente al tempo trascorso nei campi profughi.
Come raccontato da un’anziana signora giunta in Italia con i figli adulti: “when we are in Ethiopia we are with JRS (Jesuit Refugee Service) [...] that place is wonderful for the youth, as well as for the women […] It’s a very nice community. But nowhere, it’s difficult. JRS, when there’s a problem, or if you don’t have food, you go and ask, they give you rice, or always something”.

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