La presenza costante almeno nei dodici mesi di progetto finanziato da Caritas italiana si è rivelata una delle chiavi di volta per la riuscita del percorso di accompagnamento verso l’autonomia e l’integrazione sociale delle persone. Una mediatrice ha ben spiegato ciò, descrivendo la sua esperienza di mediazione:
“è stata una opportunità di fare proprio questo lavoro, la mediazione, e devo dire una cosa, mi sembrava solo tradurre ma non è solo tradurre, c'è tutto un mondo dietro che devi mediare, cioè devi far capire, e anche mentre traduci devi usare un tono di voce, un quadro generale in cui tu spieghi, perché non vuoi neanche perdere tempo, perché non vuoi far perdere tempo all'operatore e neanche alla persona che deve ricevere queste informazioni, quindi, nel mentre devi fare un sacco di lavoro. Ho iniziato veramente a capire questo lavoro, e non è un lavoro da sottovalutare, cioè io veramente ho una responsabilità di mediare, di far avvicinare queste due culture, così poi può uscire un'altra cosa […] Mi rendo conto l'importanza del valore che c'è.” Il monitoraggio dei diversi successivi arrivi con il programma dei corridoi umanitari ha messo in luce che poche diocesi avevano strutturato il progetto prevedendo la presenza costante di mediatori/mediatrici stipendiati dalla Caritas diocesana e inseriti nell’equipe degli operatori, come spiegato efficacemente da un mediatore che veniva chiamato saltuariamente:
“non avevano neanche nel programma un mediatore, come fai a parlare con delle persone se non hai un mediatore? È una cosa che io faccio ogni tanto quando posso con gli studi. [I rifugiati] sono delle persone isolate dal mondo. Per me sono persone chiuse da due mesi, non sanno manco dove sta la città”.
In effetti, nell’organizzazione delle prime accoglienze dei corridoi umanitari, questa professionalità non era richiesta da Caritas italiana come condizione essenziale per accogliere i rifugiati; tuttavia, Caritas italiana ha ben presto focalizzato l’attenzione su questo ruolo e sulle competenze necessarie per poterlo svolgere. Già nel corso del 2019, ha organizzato workshop e giornate di approfondimento rivolte soprattutto agli operatori, con mediatori provenienti dai paesi di origine delle persone accolte.
I dati raccolti sul tasso di abbandono del progetto prima della fine dei 12 mesi previsti hanno dimostrato che i beneficiari che hanno lasciato le accoglienze nella quasi totalità dei casi non avevano un mediatore costantemente disponibile o avevano avuto conflitti con il mediatore.
Il tema della centralità del mediatore in questo progetto si lega, comunque, ad alcuni problemi di difficile soluzione emersi dalle interviste: spesso non sono presenti sul territorio mediatori che parlino le lingue di specifiche etnie; se chiamata solo in situazioni di scontro tra operatori e rifugiati senza un rapporto personale costruito nel tempo, il mediatore viene percepito dai beneficiari come figure di parte, schierata con gli operatori.
Infine, bisogna sottolineare un ultimo dato: per le mediazioni che riguardano i cittadini eritrei, le interviste con questi beneficiari hanno messo in luce la necessità di selezionare i mediatori con l'attenzione particolare ad evitare mediatori della vecchia diaspora che sono a favore del regime eritreo, da cui i beneficiari dei corridoi umanitari sono invece fuggiti. Infatti, in alcune diocesi la scoperta che i mediatori, chiamati perché residenti in Italia da molti anni e quindi bilingui, sostenevano politicamente il dittatore eritreo, ha costretto le équipe diocesane a cambiare più volte mediatori. In questi casi si è sempre più incrinato, fino a rompersi del tutto, il rapporto di fiducia con i beneficiari, che hanno sempre lasciato l’accoglienza senza comunicarlo agli operatori e ai volontari.