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LAVORO
LA VIA PER L'AUTONOMIA

LA VIA PER L'AUTONOMIA

Hynie (M. Hynie. The Social Determinants of Refugee Mental Health in the Post-Migration Context: A Critical Review. The Canadian Journal of Psychiatry / La Revue Canadienne de Psychiatrie. 2018. 63(5), pp. 297-303) rileva che molti rifugiati dopo il trasferimento rimangono fissi in una situazione di povertà relativa. I rifugiati tendono ad affrontare più sfide legate all'occupazione rispetto ai migranti volontari perché le opportunità di lavoro generalmente richiedono competenze che i rifugiati non hanno (A. Van Heelsum. Aspirations and frustrations: experiences of recent refugees in the Netherlands. Ethnic and Racial Studies. 2017. (40)13, pp. 2137-2150).
Una pubblicazione dell’ISPI (Fact checking: migrazioni 2021) ha confermato che i “migranti economici trovano un’occupazione entro i primi cinque anni dall’ingresso nel paese di destinazione nell’80% dei casi. Al contrario, i rifugiati e le persone che si spostano per motivi di ricongiungimento familiare saranno occupate soltanto nel 30% dei casi, entro i primi cinque anni dal loro ingresso nel paese”.
I Corridoi Umanitari gestiti da Caritas italiana hanno accolto 75 nuclei familiari, quasi tutti con figli minori. La presenza dei bambini ha facilitato ovunque l’accoglienza e l’inizio del percorso di integrazione dell’intera famiglia. Tuttavia, l’accoglienza di famiglie ha rivelato anche alcuni elementi di difficoltà più marcata rispetto ai single.
In primo luogo, l’autonomia economica e lavorativa di un nucleo familiare è risultata più complessa rispetto a quella raggiunta dai single: per mantenere una famiglia, infatti, è necessario uno stipendio più alto e c’è la necessità, per gli adulti, di imparare a conciliare i tempi del lavoro con la cura dei figli.
Qui è anche necessario sottolineare che in quasi tutte le accoglienze, i genitori non possedevano caratteristiche adatte al mercato del lavoro. In particolare, pochi di loro avevano una conoscenza sufficiente dell’italiano, ed essendo stato necessario impiegare i primi mesi del progetto esclusivamente nello studio della lingua italiana, i tempi ulteriori per l’inserimento lavorativo si sono ridotti.
Per questo sono state interessanti le scelte di due Caritas diocesane, che hanno deciso di finanziare le famiglie accolte per cinque anni, per permettere agli adulti di acquisire competenze lavorative specifiche e ai figli di completare gli studi.
Questo problema delle competenze lavorative ha rappresentato un ostacolo ancor più grande nelle accoglienze delle 34 famiglie monoparentali, nella quasi totalità dei casi costituite da madri sole. In questi casi, infatti, la sfida della gestione dei figli e del rispetto dei tempi di lavoro si è rivelata ancora più ardua e l’autonomia economica è risultata precaria non solo alla fine dei primi dodici mesi di progetto ma anche dopo ulteriori anni di accompagnamento.
Delle 37 persone totalmente autonome economicamente al gennaio 2022, la maggioranza erano single senza figli o uomini arrivati con la famiglia, ma che avevano una conoscenza pregressa dell’italiano o dell’inglese.
Non sono mancati casi di persone e nuclei familiari in cui gli operatori hanno dovuto imporre limiti al sostegno economico perché i rifugiati dimostravano preoccupanti tendenze verso forme di assistenzialismo e rifiutavano qualsiasi impegno lavorativo proposto. Altri, al contrario, erano consapevoli delle difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro italiano, dicendosi disposti ad accettare qualsiasi lavoro: “Non ho istruzione […] non aspiro a grandi cose […] non ho niente [diplomi]. […] ovunque mi metti, ho la forza, ho la volontà, ho la salute, puoi mettermi ovunque”.
Molti rifugiati disoccupati hanno vissuto periodi di disperazione e ansia. Un volontario ha descritto un rifugiato che: “sente il vuoto di non lavorare; infatti ne parla sempre”. Un rifugiato ha aggiunto: “Se il contratto [con la Caritas] finisce e io non ho un lavoro […] Se non ho niente, come posso fare con i bambini? Ci penso sempre, perché non lavoro qui, non ho casa qui”.


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