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LESSICO
INTE(G)RAZIONE

INTE(G)RAZIONE

In sociologia l'integrazione sociale definisce uno stato di sostanziale e consensuale coinvolgimento di tutti i gruppi e soggetti collettivi nel più generale sistema delle istituzioni, delle norme e dei valori.
Gli studi più recenti definiscono l’integrazione come il complesso percorso di adattamento alla nuova situazione di vita da parte di rifugiati e comunità accoglienti, che si sviluppa in un periodo non breve ed è fortemente condizionato dal contesto in cui viene svolto (J. Phillimore 2020. Refugee-integration-opportunity structures: shifting the focus from refugees to context. Journal of Refugee Studies. Vol. 34, Issue 2, pp. 1946–1966). Inoltre, l’integrazione è stata definita come rapporto multidimensionale e multidirezionale (A. Ager e A. Strang 2008. Understanding Integration: A Conceptual Framework. Journal of Refugee Studies 21, no. 2, pp. 168-191), che implica l’esperienza di un accompagnamento reciproco fra rifugiati e comunità accoglienti e tra gruppi che gestiscono i progetti di accoglienza, cioè operatori e comunità locali (C. Ndofor-Tha et al. 2019. Home Office Indicators of Integration framework 2019. Home Office Research Report 109, UK Home Office).
L’integrazione è al centro del pontificato di Papa Francesco, che nel 2018 l’ha declinata in una dimensione cristiana in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato con queste parole: “I nostri sforzi nei confronti delle persone migranti si possono riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare”. Questa affermazione è stata fatta propria da molti volontari e famiglie tutor, come una di loro ci ha detto: “i corridoi umanitari danno un modello diverso dove non ci si limita ad accogliere, ma si cerca di proteggere, di promuovere e integrare, - i verbi [utilizzati] dal Papa ”.
Nel programma dei corridoi umanitari l’integrazione è il fine ultimo del programma stesso: “favorire l’integrazione dei beneficiari nel territorio e nella comunità attraverso l’orientamento e l’accompagnamento all’inserimento sociale, abitativo e lavorativo” (Caritas italiana. 2017. Vademecum per gli operatori). Per questo è stata una delle domande cruciali per beneficiari, operatori, famiglie tutor e volontari, direttori delle Caritas diocesane e Vescovi. Questi l’hanno descritta come un percorso, un rapporto personale e reciproco tra gli immigrati, che devono entrare nella nuova società, e la comunità che accoglie, che deve aprirsi alla conoscenza di persone diverse per lingua, cultura e talvolta religione. Nelle parole di alcuni operatori in particolare:
“Cosa intendo con integrazione? La possibilità di mantenere la propria cultura, ma soprattutto di condividerla. Quindi non perdere le proprie radici, perché renderebbe difficilissima l'esistenza stessa di queste persone, perché non possono rinnegare venti, trenta anni di vita e ricominciare da zero. Però, una volta posti in un nuovo contesto, devono avere la possibilità di condividere e ricevere quanto più buono ci sia della comunità di arrivo. Quindi la vedo come quello che in inglese si chiama melting-pot, uno scambio reciproco, al termine del quale entrambi ricevono qualcosa in più”. “Che cos’è l’integrazione? Far sentire persone di culture diverse a casa propria, però conservando la propria cultura. Quindi, riuscendo a far incontrare le culture diverse, senza che nessuno leda l’altro, scoprendo la bellezza di metterle insieme. Non deve essere una forzatura metterle insieme, l’importante è che ognuno rispetti la cultura dell’altro, e soprattutto non bisogna mai pensare che la mia cultura è più evoluta della tua”. In alcune realtà l’integrazione dei beneficiari si è inserita in un percorso già avviato con altri progetti, come raccontato da un operatore Caritas:
“Abbiamo un servizio, che chiamiamo “intercultura”, oramai sono tantissimi anni, dove noi andiamo nelle scuole di R. [città]. Ci sono tantissimi ragazzi figli di stranieri. L’intercultura [è] la cultura che può essere di aiuto per gli uni e gli altri […] lo sforzo nostro dovrebbe essere non solo di dare da mangiare e da dormire, il lavoro, ma far sentire loro partecipi della nostra storia, delle nostre strutture”. Per questo motivo una parte di operatori, volontari e famiglie tutor ha in realtà preferito parlare di “interazione” o “inclusione”, sottolineando in tal modo la necessità per tutte e due le parti (comunità accogliente e rifugiati) di conoscere e comprendere l’altro, così che alla fine ognuno diventi parte della vita dell’altro:
“Vanno aiutati a comprendere e ad accettare le nostre regole, però non dire “o così oppure no”, perché questo non vuol dire aiutare le persone, sono sempre esseri umani. Rispettare le loro regole, le loro cose e anche la loro religione […] Quindi io li devo rispettare, non è che siccome io ho la possibilità e ti aiuto, allora tu devi per forza fare questo ed essere sottoposto a me.”
“Quello che credo che sia più difficile è l’interazione con la persona […] Perché interagire ti arricchisce [...] è l’essere umano in sé come persona che mi può arricchire nella sua diversità. Ma tu pensa a come davvero con gioia io mi metto in ascolto dei loro racconti, delle loro tradizioni, e come fanno le cose e quando gliele vedo rifare qui nel limite del possibile [...] - una su tutte: il caffè".

 

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