SALUTE AVRO’ CURA DI TESebbene si aspettino buone cure mediche, molti rifugiati diffidano della medicina occidentale e, quindi, del sistema sanitario italiano. In alcuni casi è stato difficile comprendere che neanche in Italia la malattia del proprio congiunto era guaribile, pur essendo curabile, e ciò ha generato frustrazione nelle persone rifugiate. Un padre eritreo ha espresso il suo disappunto: 'Ho un figlio solo ma non sta bene, [...] speravo che in Italia fosse guarito e invece non l'hanno fatto [...] Sei anni fa è stato ferito con un coltello. [...] il bambino non ha trovato ciò che si merita”. Altri profughi prevedevano che la Caritas coprisse tutte le cure mediche, anche quelle più specializzate (es. fisioterapia). Come spiegato in un messaggio di testo da un rifugiato: "Ho un problema qui. Avevo visto un medico di fisioterapia e mi ha ordinato ginnastica e macchinario per la schiena. Ma la Caritas mi ha detto “non possiamo pagarti [per questo]”. La maggior parte delle Caritas diocesane non aveva previsto l'entità dei problemi sanitari, che spesso sono emersi solo dopo accertamenti medici in Italia, e non ha quindi potuto coprire i costi delle cure specialistiche. Bisogna poi considerare che alcune cure mediche specialistiche hanno richiesto spostamenti e periodi di ricovero lontani dalla diocesi di accoglienza, con la necessità di coprire le relative spese di viaggio e di soggiorno, oltre a dover garantire un’adeguata assistenza da parte di mediatori culturali in ospedale. In particolare sono emersi frequenti problemi psichici o disturbi psicologici nelle persone accolte, pesante conseguenza delle violenze subite e degli anni vissuti nei campi profughi. Questo stretto legame con tali problemi di salute è stato studiato largamente dalla letteratura perché accomuna frequentemente le persone che hanno subito violenze, persecuzioni e lunghi periodi di permanenza nei campi profughi. Kirmayer e Young (L. J. Kirmayer e A. Young. Culture and Somatization: Clinical, Epidemiological, and Ethnographic Perspectives. Psychosomatic Medicine. 1998. 60(4), pp. 420-430) e Fox e Tang (S. H. Fox e S. S. Tang. The Sierra Leonean Refugee Experience. The Journal of nervous and mental disease. 2000. 188(8), pp. 490-495) discutono dell'elevata incidenza di ansia e depressione durante il reinsediamento dei rifugiati. L'isolamento è uno dei principali fattori correlati alla malattia mentale, acuito anche dal fatto che i rifugiati spesso non conoscono i loro problemi e le possibilità di supporto psicologico (A. Van Heelsum 2018. Aspirations and frustrations: experiences of recent refugees in the Netherlands. Ethnic and Racial Studies. (40)13, pp. 2137-2150). Questo specifico aspetto è emerso anche in alcuni casi di accoglienza di beneficiari che hanno taciuto i loro problemi di salute mentale alle comunità ospitanti, o perché non sapevano che in Italia potevano avere anche questo genere di assistenza sanitaria o perché non avevano riconosciuto i sintomi manifestati come campanelli di allarme di condizioni di disagio mentale. Un assistente sociale ha ricordato: “La sofferenza, le ferite forse verranno fuori dopo [...] non sappiamo cosa hanno sofferto perché non è che parlassero tanto [...] Il punto di partenza è una maggiore fragilità [...] con il corridoi umanitari si prendono [i] soggetti più deboli […] si parte da una condizione di maggiore debolezza” I problemi di salute mentale possono essere difficili da rilevare e comprendere, come ha spiegato un volontario: “Dopo una settimana [....] è venuta con una faccia lunga e poi queste facce lunghe si sono ripetute. Oggi ad esempio è una buona giornata, è emozionata, è felice, ma poi domani è in crisi per alcuni problemi o problemi che non ci sono se non dentro di lei [...] abbiamo chiamato il mediatore perché non abbiamo capito”. |
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